A cura di Alessandro Crivello
Quand r’aso a brajava, surtìo tui ansèma (quando la sirena suonava, uscivamo tutti insieme). Questo sembra essere uno dei ricordi più nitidi di Marianna Gambino in Musso, una teen ager prossima ai novant’anni (classe 1916), della propria esperienza di operaia durata circa due anni presso la fabbrica tessile Vastapane di Poirino, meglio conosciuta come il Fabbricone.
Ho iniziato a lavorare nella primavera del 1928, non avevo ancora compiuto i 12 anni, fui addetta alla predisposizione delle spole per le ricamatrici. Nel Fabbricone c’era un reparto riservato al ricamo: si entrava attraverso la scala maggiore che dà su via Indipendenza (allora si chiamava via Vittorio Emanuele); al piano superiore vi erano dei macchinari per il ricamo ed una sezione per la rifinitura a mano: si facevano centrini, si ricamavano tendaggi. Nell’ala del Fabbricone antistante via Vittorio c’erano gli uffici della Ditta e la Banca Privata dei Vastapane, all’angolo con via Verdi.
Ero stata avviata a quel lavoro dal sig. Ramella, il direttore della Sezione Ricami, che abitava in una villa ai Cappuccini; quando lui era fuori per lavoro, tenevo compagnia alla moglie, mi consideravano la loro “cita”. In fabbrica facevo anche delle commissioni per conto del sig. Ramella.
Della fabbrica conservo pochi ricordi, ero troppo piccola. Veramente ero già stata nel cortile del Fabbricone prima ancora di andarci a lavorare: nel giorno in cui ricevetti la Cresima fu collocata la statua della Madonna Immacolata, statua che ora si trova all’Istituto Geriatrico. Ricordo che al piano terra vi erano i grandi telai per la tessitura delle lenzuola di cotone; si lavorava sei giorni la settimana, il mattino dalle otto a mezzogiorno, il pomeriggio dalle due alle sei; facevamo però il “sabato inglese”, cioè il sabato lavoravamo solo di mattina. Il lavoro era scandito dal suono della sirena che noi scherzosamente chiamavamo “r’aso”: si trovava sull’abbaino dell’edificio antistante via Vittorio Emanuele, forse l’impianto c’è ancora adesso.
Nel febbraio del 1930 (se mi ricordo bene), il Fabbricone chiuse improvvisamente, vi lavoravamo circa in 150 in quel momento, fummo tutti lasciati a casa, compresi i capi. Fu allora che ancora una volta la mia capa Michin-a mi aiutò, mi indirizzò alla famiglia Maina in corso Fiume a fare la donna di casa, ma questa è una storia che ho già raccontato.
Voglio ancora aggiungere un ricordo: in quegli anni tutte le famiglie poirinesi avevano dei telai a mano in casa; li tenevano nella cantina o nello storm (il ripostiglio), in genere avevano un telaio grande per le lenzuola ed uno più piccolo per gli asciugamani. Le famiglie lavoravano per conto delle ditte che fornivano il subbio con il filato; consegnavano quindi le pezze di tela che venivano pagate a misura.
Testimonianza raccolta il 29 luglio 2005 nell’abitazione in via Tavolazzo.